di Jeff Alworth

Questa è una di quelle strane settimane in cui i temi sembrano allinearsi: ho discusso via mail di Pilsner con Parker Rush della Narrows Brewing, il quale sta sperimentando una birra che rientra nei parametri dello stile, ma è fermentata con lievito Kveik; su Good Beer Hunting, David Jesudason riflette sul passato coloniale delle IPA e sull’oscuro retaggio che questo nome racchiude da secoli; infine, Martyn Cornell ha pubblicato un piacevole post sulla lunga e importante storia della Irish Red Ale, che ha avuto inizio nel 1974 a… Lilla, Francia.

Gli stili birrari sono bizzarri, somigliano un po’ alle facciate di un set cinematografico: possono trovarsi davanti a un palazzo intero, a un set costruito solo parzialmente o davanti a proprio niente. In realtà, però, questa analogia non è ottimale perché uno stile può avere inizio da un episodio romantico o da una campagna pubblicitaria per poi evolvere in un vero stile. In altri casi, come per la IPA, un nome rimane anche quando lo stile si allontana così tanto dall’originale da essere appena riconoscibile. Questi tre esempi dimostrano che uno stile birrario può celare tanto quanto rivelare.

Partiamo dalla “Irish Red Ale”, uno stile nato come trovata commerciale che consumatori e birrai hanno successivamente ricondotto a una tradizione storica tramite un’operazione di retcon. Fatevi un favore e leggete per intero l’articolo di Martyn Cornell, è molto divertente. Molto brevemente: il birrificio francese Pelforth stava cercando una nuova ricetta da produrre e si imbatté in un birrificio irlandese che stava cedendo la licenza di una delle sue birre, quella che fu poi chiamata George Killian’s Bière Rousse. Diversi anni dopo, Coors ampliò la sua offerta in America con la George Killian’s Irish Red e i pubblicitari inventarono una montagna di fandonie sulla lunga storia e sulla tradizione dietro a queste birre. Credo che fosse un atteggiamento piuttosto comune all’epoca: si creava un prodotto sulla base di idee romantiche legate a un luogo e se ne inventava successivamente la storia. Si poteva persino arrivare a coinvolgere un attore, come Coors fece con il canadese Christopher Plummer.

La parte affascinante, però, arrivò dopo: quella storia prese vita. In assenza di una tradizione locale autentica, una falsa può andar bene e a volte falso e autentico si confondono. Martyn ripercorre questo processo fino ad arrivare a Michael Jackson. Sorprendentemente, questo stile è divenuto realtà: la Irish Red Ale esiste veramente, se ne trovano centinaia di esempi, ed è vero, gran parte della sua “storia” è falsa quanto quelle facciate per set cinematografici, ma non importa come sia nata, ora esiste. E non si tratta neanche dell’unico caso in tempi recenti: le “Scotch Ale”, realizzate con malto per distillazione tostato a torba, non erano mai esistite prima che gli americani, confondendo due tradizioni diverse (quella della birra e quella del whisky), le inventassero. È come il denaro: le Red Ale non hanno un valore intrinseco, ma solo quello che noi diamo loro.

La IPA di David pone questo tema in una prospettiva diversa, radicata in una storia molto reale e, spesso, incompresa. La sua famiglia ha origini in Malesia e India (via Singapore) e, quindi, lui affronta la storia coloniale di questo stile dal punto di vista della sua stessa vita. Il suo post rappresenta una profonda analisi del significato di colonialismo e non voglio tentare di riassumerlo. Ragionando su come gestire lo stile oggi, conclude dicendo:

“Vorrei vedere una birra venduta come una “India Pale Ale”, ma pubblicizzata in un modo che renda chiaro il retaggio dell’impero britannico e il sangue che è stato versato a causa sua. Invece di riportare in etichetta l’indicazione “Brassata lontano dall’India”, perché non raccontare ai consumatori le malefatte della Compagnia delle Indie Orientali e spiegare il motivo per cui queste birre furono inizialmente inviate in India?”.

David fa principalmente riferimento al significato di IPA nel Regno Unito. Le cose si complicano in altri paesi: gran parte dei consumatori americani, per esempio, ha solo una vaga idea che la “I” di IPA sta per India e ancora meno di loro ne sa il motivo. Il compito di ricondurne le origini alla Compagnia delle Indie Orientali è reso ancora più difficile alla luce della rinascita di questo stile, avvenuta in America. Oggi, i birrifici di tutto il mondo realizzano birre americane prodotte in birrifici artigianali in stile americano e, spesso, creano anche IPA americane. Si tratta di paesi che non hanno nulla a che fare con quella “I”. Inoltre, birre prodotte a Guadalajara con due chili di luppolo Citra a barile difficilmente potrebbero essere più lontane da quelle che viaggiavano in botti di legno trasportate nelle stive delle navi da Londra a Bombay duecento anni fa, l’unica cosa che le unisce è il nome.

Infine, abbiamo la Pilsner, uno stile che sembra mostrare una certa coerenza di metodi produttivi e una storia chiara e inequivocabile. Eppure, osservando da vicino ci si accorge che quasi ogni aspetto dell’originale ceco può essere modificato: una volta approdato in Germania, questo stile si è liberato del luppolo Saaz;  la decozione è caduta in disuso da decenni, così come la fermentazione in vasche aperte, ancora diffusa nella Repubblica Ceca; la scelta del malto, che risale all’antica ricetta di Josef Groll, è ancora estremamente importante in Repubblica Ceca (Urquell malta ancora il suo orzo), eppure si trovano “Pilsner” moderne realizzate con varie basi di malto, spesso costituite da malti diversi da quelli Pilsner e da altri prodotti fermentescibili; i birrifici più grandi utilizzano filtri per il mosto ed estratti di luppolo; la luppolatura del primo mosto, infine, raramente viene praticata fuori dalla Repubblica Ceca. Si potrebbe anche dissentire su tutto questo, ma Miller Lite si è a lungo definita “a fine Pilsner beer”, ovvero “una buona Pilsner”. In termini di coerenza stilistica, è difficile trovare una Pilsner che non sia scesa a compromessi a un certo punto del suo processo produttivo.

Dove risiede, quindi, l’anima di una Pilsner? Se venisse prodotta una birra con doppia decozione, orzo ceco maltato a terra e luppolo Saaz, se il primo mosto venisse luppolato e poi fermentato in vasche aperte, ma venisse utilizzato lievito Kveik al posto di un lievito lager la si potrebbe considerare meno “Pilsner” di una birra realizzata con un filtro per il mosto, con estratti di luppolo e un lievito lager? Sarebbe più o meno autentica della Irish Red Ale o della IPA?

Gli stili birrari sono una convenzione, un modo rapido per fare riferimento a qualcosa che tutti pensiamo di conoscere, ma basta analizzarli un po’ da vicino per cadere in un vuoto epistemologico. Ciò che più amo della birra è il modo in cui la cultura e la storia modellano gli stili prodotti dai birrai, ma questo processo dinamico conduce a volte a vicoli ciechi.

Forse è meglio non pensarci troppo a fondo, meglio farsi una Smithwick’s.


Testo originale:

https://www.beervanablog.com/beervana/2021/8/26/the-language-of-style

Autore: Jeff Alworth

Data di pubblicazione: 27 agosto 2021


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