di Adrian Tierney-Jones

La prima birra belga che abbia mai bevuto è stata la Stella Artois. Avevo 15 anni e mi trovavo in un hotel di Ostenda, durante il mio primo viaggio nell’Europa continentale. Non la ricordo bene, ma mi era piaciuta (ricordo che alla fine degli anni ’80 a fianco alla stazione di Harringay, a Londra, c’era un piccolo negozio di alcolici che vendeva bottigliette di Stella importata, che io adoravo. All’epoca non sapevo che fosse luppolata a freddo, fatto che forse spiega la mia immediata devozione). 

È stato in questo periodo che ho iniziato ad apprezzare veramente le birre belghe. Innanzitutto la Duvel, grazie a un amico che lavorava ad Eindhoven (lo so che non è in Belgio, ma me l’ha fatta conoscere lui e una sera ne abbiamo bevute otto bottiglie. Il che, se i postumi del giorno dopo mi hanno insegnato qualcosa, è sconsigliabile). Hanno fatto seguito altre birre: Chimay, Dupont, Orval e Hoegaarden, che era difficile evitare nella Londra dei primi anni ’90. Da allora sono stato in Belgio molte volte: ho visitato birrifici, intervistato birrai e sono rimasto devoto a molte delle sue birre (sebbene il mio amore per le birre belghe non sia cieco, alcune sono pessime). 

L’ultima volta ci sono stato a novembre e non vedo l’ora di tornarci, soprattutto dopo aver di recente acquistato una copia di The Belgian Beer Book, di Erik Verdonck e Luc de Raedemaeker. È enorme, pieno di tante fotografie meravigliose, ma anche di testi su birre, locali e sulla cultura brassicola sia delle Fiandre che della Vallonia. Quando è arrivato, la settimana scorsa, mi sono seduto a sfogliarlo e la mia sete di birra belga ha continuato a crescere, mi ha preso per mano e mi ha condotto alla mia birra del mercoledì, la Westmalle Tripel, della quale mi sono state consegnate alcune bottiglie dal fantastico negozio Hops + Crafts di Exeter. 

La birra trappista per me è una collaborazione tra il mondo sacro dei monaci cistercensi e quello profano della birra commerciale, un ponte tra la spiritualità e la mondanità. Dopotutto produrre birra non è solo un modo di pregare, ripetendo le stesse cose giorno dopo giorno, magari a volte cambiando le parole o la ricetta? E per me la Westmalle Tripel è la rappresentazione dall’aroma più generoso e dalla struttura più elegante di questa unione, un’apparizione dorata che riluce nel suo bicchiere in stile Santo Graal sotto un vaporoso cappello di schiuma benedetta, bianca come la neve. Al naso dona sentori di limone, zucchero d’orzo e invitante arancia dolce, mentre al palato è carica di arancia con accenni di pesca, dolcezza da malto e un corpo morbido come una mousse. Il finale presenta una vivace nota luppolata che mi fa venire voglia di rituffarmi nel bicchiere. 

Ho visitato la Westmalle cinque anni fa. A dire il vero va fatta una correzione: ho visitato il bar-ristorante sul posto, ma non sono riuscito ad avvicinarmi al birrificio più di quanto consentisse una passeggiata autunnale con un gruppo di giudici del Brussels Beer Challenge. A quanto pare alcuni di noi hanno cercato di saltare per sbirciare l’impianto di produzione oltre le mura. Forse ho ottenuto così la foto qua sotto. Avrei dovuto comprare una scaletta. La prossima volta lo farò. A meno che, ovviamente, non sarò ammesso nel birrificio.


Testo originale:

http://maltworms.blogspot.com/2020/04/wednesday-beer-westmalle-tripel.html

Autore: Adrian Tierney-Jones

Data di pubblicazione: 29 aprile 2020


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