di Martyn Cornell
Kveik: una parola che probabilmente sentiremo molto più spesso nel mondo della birra. Ma cos’è il kveik? Ecco un paio di cose che non è.

Il kveik NON è uno stile birrario. È il nome dato in alcune parti della Norvegia Occidentale al lievito utilizzato nella tradizione locale per la birrificazione agricola, sembra che derivi da una parola norrena che significa “legnetto accendifuoco”, come se il kveik accendesse il fuoco del brassaggio, e a quanto pare è correlata alla parola inglese “quick” nel senso di “vivo”. In particolare, il kveik NON è l’equivalente norvegese del Saison. Kveik è solo uno della mezza dozzina di termini utilizzati in Norvegia per dire “lievito”, tra gli altri ci sono “barm” (che si usa anche in inglese), “gjaer”, “gjest” (dalla stessa radice di “yeast”, ovvero “lievito” in inglese) e “gong”. L’utilizzo del termine “kveik” è limitato al sud-ovest del paese, ma anche lì, compete con gli ultimi tre termini alternativi elencati che hanno avuto tutti una maggiore diffusione.

Nei brassaggi dell’area in cui viene utilizzato il termine “kveik” sono riscontrabili alcune similitudini. A nord del ghiacciaio Jostedalsbreen si tratta generalmente di ale “crude”, ovvero realizzate senza bollire il mosto, e con un utilizzo del luppolo da lieve a inesistente: di solito ci si limita a lasciare un sacchetto di luppolo nel flusso di mosto che scende dal tino di ammostamento. Il tutto è prodotto con acqua bollita con rami di ginepro al suo interno, che donano alla birra un sapore aspro come di limone e cedro, oltre a contribuire a preservarla da infezioni batteriche.

Il kveik NON è uno specifico ceppo di lievito e dire “lievito kveik” è un po’ tautologico, nonostante il termine sembri indicare una specifica famiglia di lieviti. Però, all’interno di questa famiglia ci sono dozzine, forse centinaia di diversi ceppi individuali e ogni tipo di kveik può contenere tra due e dieci di questi ceppi. L’utilizzo di molteplici ceppi di lievito sembra essere importante.

Alcuni kveik sono a bassa fermentazione, altri ad alta, altri ancora a fermentazione intermedia: dipende sostanzialmente da dove il birraio ha raccolto il lievito alla fine della fermentazione. Lars Marius Garshol, che ha letteralmente scritto il libro sulla birrificazione agricola norvegese, sostiene che “in alcune aree, come Sunnmøre e Nordfjord, una tradizione richiedeva che il lievito venisse mixato ogni circa cinque anni e i kveik che provengono da questi luoghi mostrano una varietà molto più amplia di ceppi di lievito.”



Richard Preiss, co-founder di Escarpment Laboratories, con sede a Guelph, Ontario, la cui azienda è forse quella che ha studiato il kveik più di qualunque altra al mondo, suggerisce che questi diversi ceppi siano interdipendenti, che ciascuno produca una vitamina che serve agli altri. Garshol sostiene che Preiss “sembra sempre ottenere fermentazioni più lente con lieviti di un solo ceppo di kveik rispetto a colture miste. Quindi possono sopravvivere in autonomia, ma la fermentazione avviene più velocemente e più facilmente con l’aiuto di altre colture. Ma fare un esperimento per dimostrarlo che sia in qualche modo riproducibile da altri è molto difficile”.

Ma comunque non è questa la cosa più interessante riguardo al kveik. L’aspetto del kveik che probabilmente più degli altri ne assicurerà l’adozione fuori dalla Norvegia è lo spettro di sapori che è possibile ottenere dal lievito, fruttato e profondo, che ben si sposa con la ricerca di nuovi aromi che al momento sembra essere il motore dell’innovazione della birra artigianale. Ma riservano anche altre meraviglie: per esempio, la tolleranza alle alte temperature mostrata dai ceppi di kveik, molti dei quali possono tranquillamente fermentare fino a 40°C.

Preiss, un canadese alto, barbuto e simpatico, il mese scorso, in un intervento al Norsk Kornøl Festival di Hornindal, nella Norvegia Occidentale, ha rivelato che la sua azienda ha testato 25 diversi ceppi da campioni di kveik forniti da Garshol “e tutti quelli che abbiamo testato crescevano a 40°C, i due terzi tollerava i 42°C, che non è una cosa normale nel mondo della birra: la maggior parte della gente fermenta a 20. È notevole. Scienziati illustri hanno progettato lieviti che lavorano a 42°C ed ecco qua un gruppo di lieviti naturali dalla Norvegia che fa la stessa cosa.

“Questo significa che un homebrewer che non ha molta attrezzatura, nonostante non abbia un frigorifero per controllare la temperatura e magari si trovi in un piccolo appartamento di città a 30°C, può ancora produrre una buona birra in estate e questo è piuttosto rivoluzionario perché non era possibile prima di questi lieviti”. Preiss dice che c’è anche “qualche concreta possibilità di utilizzare questi lieviti altrove, oltre alla capacità di produrre buoni aromi e buona birra ad alte temperature. Significa che un birrificio artigianale in un clima tropicale potrebbe poter ridurre i costi di raffreddamento e rendere la sua birra più efficiente a livello energetico.”

Qual è stata l’evoluzione dei lieviti kveik? Come sono arrivati a lavorare a temperature così alte? Garshol suggerisce che la causa sia la pressione alla quale erano sottoposti i birrai, la quale ha influenzato la loro scelta dei lieviti da mantenere per la successiva partita di birra: “Le temperature di fermentazione sono folli. Ma quando si guarda alle fonti antiche, queste concordano nel dire “tiepido”, in altre parole circa 37°C. Perché? Ovviamente i birrai vogliono aggiungere il lievito il prima possibile. Ma mano a mano che il mosto si raffredda, lo fa sempre più lentamente e con metodi refrigeranti antiquati e 150 litri di mosto, si raffreddava davvero molto lentamente. Ci sono quindi molte testimonianze di birrai costretti a rimanere svegli fino a tarda notte prima di poter aggiungere il lievito. E chiaramente più si aspetta, più aumenta la possibilità che sopraggiunga qualche batterio acido-lattico. Quindi si vuole davvero fermentare a caldo, il più caldo possibile.” I lieviti che sopravvivevano dopo essere stati versati nel mosto a 40°C e che procedevano e fermentavano una buona birra saporita erano quelli che venivano mantenuti per essere utilizzati in futuro.

Lo stesso può dirsi dell’abilità del kveik disidratato di tornare a crescere vigorosamente una volta reidratato. Preiss afferma che quando Escarpment ha ricevuto i suoi primi campioni di kveik “la prima cosa che abbiamo scoperto, e l’abbiamo scoperta molto presto, è che questo non è un normale lievito. Abbiamo ricevuto il campione disidratato, l’abbiamo reidratato e le cellule apparivano sane e gonfie entro cinque minuti. Ne abbiamo messo un po’ in del mosto, siamo andati a pranzo e quando siamo tornati, 40 minuti dopo, stava fermentando. Non è nomale per un lievito di birra. Quello è stato il primo segnale che probabilmente si trattava di qualcosa di speciale.

“Abbiamo fatto delle prove di fermentazione con 25 lieviti kveik comparandoli con il classico California Ale Yeast, WLP001, il lievito più diffuso tra gli homebrewer, e abbiamo riscontrato che fermentavano piuttosto rapidamente. Quando abbiamo misurato il tasso di rilascio di CO2 dopo 24 ore di fermentazione, alcuni lieviti kveik avevano fermentato il doppio più rapidamente rispetto al California Ale Yeast e la maggior parte, 19 su 25, era stata più comunque veloce. Questo è coerente con quanto abbiamo osservato semplicemente reidratando il lievito: inizia a fermentare molto presto. Sembra essere una caratteristica piuttosto comune ai kveik e questo rapido avvio della fermentazione è alquanto unico. Ai birrai piace, i birrai vogliono sapere che la fermentazione sta funzionando. Alcuni dei ceppi che abbiamo testato avevano pressoché terminato la fermentazione entro due o tre giorni.”

Di nuovo, la spiegazione per questa caratteristica deriva dalle pressioni alle quali è stato sottoposto il lievito. I birrai agricoli norvegesi non brassavano, e non brassano, regolarmente: magari solo due o quattro volte all’anno. Avevano bisogno di preservare i loro lieviti tra un brassaggio e l’altro e prima dell’avvento della refrigerazione l’unico modo di farlo era disidratandolo. I ceppi di lievito che sopravvivevano alla disidratazione erano quelli selezionati. Inoltre, un birraio agricolo potrebbe avere bisogno di una nuova fornitura di birra con un preavviso molto breve: l’arrivo di un ospite inaspettato, per esempio. Ancora una volta, i lieviti che si attivavano rapidamente e terminavano velocemente erano quelli che venivano selezionati in quanto ottimali.

Più difficile da spiegare è la tolleranza dei ceppi kveik all’alcol. Stando a Preiss, “per quello che riguarda la produzione di alcol dal mosto, alcuni erano molto efficienti, ma avevano un ampio range di attenuazione, dal 66% al 95%, e per quello che riguarda la produzione di alcol, dal 4,4% al 6,4%”. Però, quando Escarpment ha testato la resistenza all’alcol dei ceppi di kveik, “siamo rimasti piuttosto sbalorditi. Abbiamo testato la tolleranza all’etanolo di otto lieviti kveik e tutti arrivavano fino al 12% di alcol, che non è normale: i lieviti di birra convenzionali mostrano una gamma, alcuni non sopravvivono bene ad alte gradazioni e altri sopravvivono. È molto raro esaminare otto ceppi e scoprire che tutti quanti crescono in quel modo. Abbiamo scoperto che anche alzando la gradazione fino al 16% un terzo dei ceppi di kveik continuava a crescere, il che è piuttosto notevole.
“Abbiamo osservato anche la flocculazione e abbiamo riscontrato che i due terzi era molto flocculante, alcuni erano molto molto flocculanti. Ma anche in unico campione di kveik può esserci una variabilità di flocculazione enorme tra i vari lieviti del ceppo. Alcuni non sono affatto flocculanti, altri si depositano in dieci minuti lasciando il liquido cristallino. Di nuovo, è interessante notare questo tipo di variabilità in un’unica comunità di lievito.

“Abbiamo anche testato gli aromi che producono, utilizzando la gascromatografia. Ne abbiamo individuati alcuni, in modo piuttosto coerente con i ceppi di kveik: esteri di acidi grassi come l’esanoato di etile, che fornisce aromi di ananas, l’ottanoato di etile, aromi di ananas, cera e cognac, il decanoato di etile, di mela rossa, l’acetato di feniletile, aromi floreali e di miele. Solo due dei ceppi erano fenolici, significa che (il resto) è probabilmente stato scelto dagli esseri umani a un certo punto perché non produceva fenolo e rendeva un sapore molto tipico dei lieviti di birra, pulito ma anche leggermente fruttato. I livelli di fuselolo si aggiravano al 50% rispetto all’US-05 (un lievito diffuso tra gli homebrewer americani). Abbiamo inoltre individuato sentori di agrumi in molti kveik, oltre a rum e caramello e abbiamo anche percepito sentori di funghi. Non siamo ancora sicuri di cosa siano tutti quei composti aromatici e c’è una buona probabilità che scopriremo che ce ne sono alcuni unici emessi dal kveik che non sono presenti in altri lieviti.”

Preiss dice che un’altra cosa che Escarpment ha notato è che, analizzando i genomi, sembrano esserci due gruppi principali di kveik che corrispondono in gran parte alla geografia dell’area nella quale è possibile trovarlo: un gruppo, incluso l’Hornindal, a nord dello Jostedalsbreen, il ghiacciaio più grande d’Europa, e del Sognefjord, il fiordo più lungo e profondo della Norvegia, e l’altro gruppo, incluso il Voss, a sud di queste due importanti barriere naturali. “Questo suggerisce che, nonostante possano avere un antenato comune, si sono evoluti separatamente a causa dell’isolamento geografico delle regioni nelle quali oggi si trovano. I ghiacciai e i fiordi norvegesi creano barriere che rendevano difficoltosa la mobilità delle persone in passato. Non capita spesso di rilevare questo tipo di correlazione geografica nella genetica delle colture di lievito.” Garshol fa notare che questa divisione corrisponde anche a una diversità dei processi brassicoli: a nord sono quasi tutte birre “crude” il cui mosto non è stato bollito, mentre a sud la maggior parte dei birrai lo fa bollire (per un’argomentazione più approfondita rimando al blog di Garshol qui).

La domanda a cui ora trovare una risposta è dove si posizionino i ceppi di kveik nell’albero filogenetico dei lieviti. Uno studio realizzato nel 2016 dall’ Istituto di Biotecnologie di Flanders e dall’Università di Lovanio, in Belgio, ha dimostrato che tutti i lieviti per birre commerciali si dividono in due ceppi: Beer One, che risale al tardo 1500 o inizio del 1600, e Beer Two, che risale a circa il 1650. Finora, Preiss e il suo team di Escarpment sono solo riusciti a prendere un’approssimativa impronta digitale dei ceppi di kveik in loro possesso, “le quali non hanno una risoluzione molto alta, ma sono tipicamente accurate e possono darci indicazioni riguardo alle relazioni genetiche tra diversi lieviti. E quello che abbiamo scoperto quando abbiamo adottato questo approccio è che il lievito kveik analizzato in campioni differenti presentava più somiglianze tra loro che non con altri ceppi di lieviti di birra addomesticati.
“Per questo pensiamo il kveik possa formare un ramo a parte nell’albero genealogico dei lieviti di birra. Detto ciò, se andiamo a cercare i lieviti con cui hanno più in comune troviamo che si tratta di un gruppo di ceppi che include alcuni lieviti Kölsch e inglesi, oltre a un ceppo lituano che abbiamo analizzato. È quindi possibile che in qualche momento della storia tutti questi lieviti abbiamo avuto un antenato in comune, ma non possiamo ancora dirlo con certezza, senza un sequenziamento del genoma.”

Indagare utilizzando il sequenziamento del genoma costa tanto, 1.000$ o 2.000$ a ceppo. “Ma noi crediamo che il modo in cui i kveik sono stati mantenuti per così tanto tempo, e il fatto di non essere rimasti chiusi in un laboratorio per 100 anni, potrebbero fornirci un nuovo modo di studiare la domesticazione del lievito senza necessariamente dover studiare i lieviti commerciali,” sostiene Preiss. “Abbiamo richiesto una sovvenzione e sono contento di poter dire che abbiamo ricevuto dei fondi per procedere con il sequenziamento del genoma per questi ceppi di kveik. Speriamo di poter avere delle risposte verso primavera e speriamo di poter dire con certezza che i kveik sono un ramo separato dell’albero genealogico e avere le idee un po’ più chiare su come e quando esattamente si sono separati dagli altri lieviti di birra. Stiamo utilizzando questi lieviti norvegesi per dare un forte impulso al settore della scienza che si occupa di birra e di lieviti.”

Un’altra domanda alla quale trovare risposta è: esistono altri lieviti come questi? “Sì, certo, in Lituania, in Russia e probabilmente in altri posti”, afferma Preiss. “È veramente un’opportunità entusiasmante, poterli studiare e iniziare a comprendere questi lieviti diversi, che non sono né industriali né selvaggi. Il termine che ho iniziato a utilizzare è “lieviti ecotipi” che penso funzioni bene per un organismo che è stato tradizionalmente addomesticato, senza un coinvolgimento industriale, e grazie a quello specifico contesto culturale si è sviluppato geneticamente in modo diverso rispetto altri elementi di quella specie. Indica una nuova, una terza categoria di lieviti che non è ancora stata esaminata nell’arte brassicola.
Ho avuto la fortuna di poter assistere a un “birraio agricolo norvegese” in azione: Stig Seljeset, il cui padre era un birraio agricolo e che ha voluto mantenere la tradizione. Stig brassa a Borghild Tunet, a Hornindal, dove “tunet” significa “tenuta agricola” in norvegese, patria di Idar Nygård, vicesindaco di Hornindal, che ha preservato la vecchia tenuta come la si sarebbe potuta vedere più di un secolo fa. La birra che produce Stig è una birra “cruda” realizzata senza bollire il mosto. Il primo passo è quello di far bollire l’acqua (che proviene da un foro di trivellazione nelle montagne e contiene parecchio calcare) e rami di ginepro in un grosso pentolone di ferro di circa 100 litri, sospeso sul focolare nella vecchia cucina della tenuta (esattamente come fa Frank Clark nella sua riproduzione di una cucina di campagna del XVIII sec. a Colonial Williamsburg, in Virginia). Tutta l’attrezzatura viene poi pulita e lavata con l’acqua calda aromatizzata al ginepro, poi Stig, tramite dei bidoni da latte, trasporta quest’acqua fino al “tino di ammostamento”, un barile di plastica alimentare blu da 200 litri posizionato in un locale all’altro lato del cortile della tenuta.

Il malto, in quest’occasione Munton’s pale lager del Suffolk, anche se Stig è contento di usare qualunque cosa riesca a ottenere, viene aggiunto e l’ammostamento avviene a 68-70ºC. Quando è passato abbastanza tempo da aver permesso la conversione degli amidi in zuccheri, i cereali vengono trasferiti con dei secchi nel “tino di filtraggio”, un altro barile di plastica blu, ma con un rubinetto sul fondo. Prima di fare di questo, Stig posiziona un “filtro” di legno nel tino, sopra al rubinetto, rinforzandolo con delle fronde di ginepro. Il mosto rimasto nel tino di ammostamento viene quindi versato nel “tino di filtraggio” e fatto scorrere in bidoni da latte, mentre altra acqua aromatizzata al ginepro viene versata per lo “sparging” del malto. Una busta contenente luppolo sfuso, Challenger questa volta anche se, ripeto, Stig non è pignolo e utilizza quello che gli capita di trovare, viene appesa al bidone e il mosto caldo scorre sul luppolo, come una bustina di tè. Questo è l’unico contatto della birra di Stig con il luppolo.

Il raffreddamento del mosto avviene tramite un tubo di gomma circolare forato in tutta la sua lunghezza posizionato intorno alla sommità del bidone da latte: facendo scorrere acqua fredda al suo interno questa gocciola all’esterno del bidone. Una volta sufficientemente raffreddato, il mosto viene trasportato nella cantina della vecchia farmhouse, dove viene aggiunto al “tino di fermentazione”, un altro barile di plastica blu. L’obiettivo di Stig è quello di versare il kveik nel tino di fermentazione a una temperatura di 32°C, ma quella era una giornata fredda e il suo termometro (l’unica “tecnologia” che Stig utilizza) indicava che il mosto era sceso a 28°C, quindi ha aggiunto gli ultimi 10 litri di mosto senza raffreddarli, in modo da far alzare la temperatura globale. Il kveik, un mix di lieviti disidratati da birrificazioni del 2012 e del 2016, viene scaldato e riportato in vita in una scodella di legno con del mosto accanto al focolare per poi essere aggiunto nel tino di fermentazione e lasciato nella cantina buia a compiere la sua magia. Il risultato finale, dopo un paio di giorni, sarà torbido, leggermente aspro e acidulo, probabilmente sul 5% abv e delizioso.
Testo originale:
http://zythophile.co.uk/2017/11/20/how-to-brew-beer-like-a-norwegian-farmer/
Autore: Martyn Cornell
Data di pubblicazione: 20 novembre 2017
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