di Jeff Alworth

Il lettore Bob Paolino ha notato che oggi è il 14° anniversario della morte di Michael Jackson. La tempistica di questo post è del tutto casuale, ma dimostra come la sua influenza si protragga nel tempo.


Rispondendo al post della scorsa settimana sugli stili di birra, alcuni si sono chiesti da dove provenisse questo concetto. Brian Swisher scrive nei commenti al post:

Non è forse vero che Michael Jackson è stato il primo a documentare per iscritto l’idea degli stili di birra? Penso che a volte sia bene ricordare che amiamo suddividere le cose in categorie, anche se molte parti del nostro mondo esistono lungo un continuum. Senza una guida esterna, le mie categorie di stili sono destinate a essere diverse da quelle di un altro, soprattutto se questo non ha studiato gli stili esistenti in precedenza.

Si capisce subito quando qualcuno ha fatto una buona domanda dal fatto che la risposta è complicata e Brian ha inquadrato la sua in modo particolarmente efficace. Non c’è un solo modo di pensare agli stili e nel corso dei decenni la gente ha organizzato la birra in molti modi. Quanto ha influito Jackson sul modo in cui pensiamo agli stili? Molto, ma forse più per un motivo che spesso ci sfugge.

GLI STILI DI BIRRA SONO ANTICHI

A parte la nomenclatura, il concetto di stili di birra è molto antico. I tedeschi non avevano bisogno che Jackson dicesse loro che la helles esisteva o che era diversa dalla pilsner. Nel momento in cui i birrai hanno iniziato a produrre diverse versioni di birra, infatti, hanno avuto bisogno di un modo per parlarne. La birra ha preceduto di molto la parola scritta, ma una volta arrivata quest’ultima innovazione, troviamo immediatamente gli stili di birra nei documenti. Una relazione sui registri sumeri delle attività economiche (perché se non si documentano le transazioni, come si pensa di poterle tassare?) riporta:

Verso la metà del III millennio a.C., i documenti amministrativi sulla birra mostrano un formato diverso. Anche in questo caso le voci riguardano un certo numero di tipi diversi di birra che a quel tempo, tuttavia, erano caratterizzati da denominazioni intuitive come “birra dorata”, “birra scura”, “birra scura dolce”, “birra rossa” e “birra filtrata”
– Peter Damerow, “Sumerian Beer: The Origins of Brewing Technology in Ancient Mesopotamia”.

Naturalmente, pensando per un attimo alla storia della birra, ci si rende conto che è piena di nomi di stili di birra famosi come London Porter, Gueuze, Weissbier e così via. I nomi sumeri dimostrano che nemmeno migliaia di anni hanno cambiato di molto il nostro modo di concepire la birra: all’epoca c’erano persino gli stili “torbido” e “filtrato”! L’abitudine di produrre nuovi tipi di birra è antica quanto la birra stessa.

JACKSON E I SUOI “STILI DI BIRRA”

Michael Jackson, morto nel 2007, è stato lo scrittore di birra più influente dell’ultimo mezzo secolo. Giornalista di formazione, ha iniziato a scrivere seriamente di birra solo verso i 30 anni e ha portato nel suo lavoro un’abilità da reporter nello spiegare i concetti. La prima cosa che dovette fare fu osservare questo insieme eterogeneo di nomi e cercare di capire cosa significassero. Per la maggior parte della sua carriera, ha scritto pensando ai principianti (dagli anni ’70 agli anni ’90, durante la sua massima produzione, questo significava la maggior parte dei lettori). Voleva strutturare le informazioni relative ai Paesi produttori di birra e ai diversi prodotti che questi realizzavano e ha elaborato questo quadro nella sua Guida alle birre del mondo (1977):

Le birre si dividono in tre grandi categorie: quelle ad alta fermentazione, quelle prodotte con una certa quantità di frumento (anch’esse ad alta fermentazione) e quelle a bassa fermentazione. All’interno di ogni categoria esistono degli esempi classici, alcuni dei quali hanno dato origine agli stili generalmente accettati, sia regionali che internazionali. Se un birraio ha l’intenzione specifica di riprodurre una birra classica, allora sta lavorando all’interno di uno stile. Se la sua birra ha solo una generica somiglianza con altre, allora può essere considerata dello stesso tipo. Tali distinzioni non potranno mai essere definitive a livello internazionale, poiché la comprensione della terminologia varia da una parte all’altra del mondo.

Dalla sua stessa descrizione, con la quale ha introdotto nel mondo il termine “stile”, o meglio “stile birrario”, distinguendo la categoria da raggruppamenti più informi, è evidente come stesse lottando con gli stessi problemi di cui ho parlato la settimana scorsa. Aveva chiaramente ragione nell’osservare che i diversi Paesi concepiscono la birra in modo diverso, per cui non si possono fare paragoni approssimativi tra le varie categorie. Come documenta Martyn Cornell, molti scrittori precedenti avevano tentato imprese simili, ma usando nomi diversi, come “tipi”, “categorie”, “varietà” o addirittura “specie”. Utilizzando il termine “stili”, Jackson è stato almeno originale. (Cornell teorizza, in modo plausibile, che Jackson abbia attinto al linguaggio del suo mestiere di cronista e redattore, che utilizza “linee guida di stile”).

L’elemento più interessante del suo pensiero non è però il nome, ma il modo in cui ha cercato di applicare uno standard più universale, che funzionasse bene sia in Germania che in Belgio: “se un birraio ha l’intenzione specifica di riprodurre una birra classica, allora sta lavorando all’interno di uno stile”. Concentrarsi sulla sua idea di archetipo di birra è stata un’operazione importante nell’opera di Jackson, che ha avuto effetti profondi sul modo in cui oggi la concepiamo. Per capire uno stile, cercava l’esempio per eccellenza: la forza, il colore e i sapori di quella birra diventavano lo standard per quello stile. Le birre e i birrifici da lui scelti sono diventati, di conseguenza, dei classici.

La Brasserie Dupont ne è un buon esempio: quando Jackson iniziò a scriverne, il birrificio non produceva quasi più la Saison e Dupont aveva intenzione di interromperne la produzione, dal momento che avevano molto più successo con la Moinette e la Redor Pils. Tuttavia, Jackson lodò la Saison di Dupont e affascinò i lettori stranieri. Le sorti della Saison cambiarono, ma solo come prodotto di esportazione. A livello locale, i belgi, sconcertati, continuavano a bere la Moinette. Per milioni di americani, tuttavia, Dupont è sinonimo di saison.

Molti dei birrifici che Jackson ha messo in evidenza erano già molto famosi: Pilsner Urquell, Rodenbach, Guinness, Paulaner. La storia pone inevitabilmente questi birrifici al centro dell’attenzione. Ma mettere in luce altri birrifici meno conosciuti come Dupont, Schlenkerla e Traquair, ha significato trasformarli in classici istantanei. Scegliendo questo approccio ha anche definito gli stili in modo che sembrassero più scientifici e meno impressionistici.

Nessuno ha esplorato la sua influenza da questo punto di vista (per quanto ne so), ma ha plasmato il modo in cui gli americani in particolare pensavano alla birra. Ha aperto mercati di esportazione per i birrifici da lui identificati e i birrai americani, la maggior parte dei quali non ha mai viaggiato molto nel mondo della birra, ha preso quegli esempi come birre canoniche, quasi santificate. Le linee guida di stile che hanno fatto seguito hanno utilizzato l’approccio scientifico per attribuire numeri e intervalli alle varie dimensioni dello stile di birra, identificando anch’esse, ovviamente, come aveva fatto Jackson, esempi classici.

Dal momento che oggi guardiamo alla birra in termini di stile, questo sembra un concetto organico e intuitivo. Naturalmente, sotto le definizioni cliniche ed esaustive si nascondono delle ambiguità. La tensione è più evidente categorie più dubbie di Jackson: la sua divisione delle brown ale inglesi in versioni settentrionali e meridionali, ad esempio, non ha molto senso, se non nella misura in cui i birrifici presi ad esempio differiscono tra loro. Lo stesso problema si presentò quando decise che nelle Fiandre esistevano due stili distinti, che etichettò come Oud Bruin e Flanders Red. Le brown ale inglesi sono diventate così marginali che la questione non ha più importanza, ma abbiamo ancora a che fare con i residui confusi e astorici delle sue scelte nelle Fiandre.

Un risvolto negativo ha avuto anche l’idea che gli stili fossero cose permanenti, fisse, con un unico referente. Quando gli americani hanno scoperto Jackson e i suoi stili, li hanno accolti per la loro chiarezza, senza riconoscere che funzionano al massimo come istantanee nel tempo. Se Jackson avesse parlato di stili come di categorie più provvisorie o temporanee, forse non avrebbero influenzato gli Stati Uniti allo stesso modo.

Per l’epoca in cui scriveva, tuttavia, non c’è dubbio che le sue tassonomie fossero fondamentali. Il consolidamento dei birrifici aveva lasciato ai bevitori una scarsa percezione della varietà esistente, la nostra comprensione della birra si era atrofizzata fino a diventare quasi nulla. L’approccio alla birra di Jackson ci ha dato una struttura, una pedagogia, quasi, forse eccessivamente semplificata, ma necessaria per istruire un pubblico di massa. Molti giovani birrai sono entrati nel settore negli anni ’80 e ’90 grazie al modo in cui lui scriveva della birra.

Da allora sono cambiate molte cose e la rigidità e la struttura degli stili sta iniziando a cedere di fronte alla rapida evoluzione dei sapori e degli approcci. Da tempo mi lamento dell’elenco incredibilmente lungo e assurdo di “stili” del Great American Beer Festival (che ormai si avvicina al centinaio).

Quindi no, Jackson non ha inventato gli stili di birra: ha introdotto il nome che oggi usiamo, ma soprattutto ha fornito il quadro concettuale, nel bene e nel male. Un altro scrittore l’avrebbe pensata diversamente, e molti l’hanno fatto, ma l’approccio di Jackson è stato quello che ha catturato i lettori ed è quello che usiamo ancora oggi.


Testo originale:

https://www.beervanablog.com/beervana/2021/8/30/who-catalogued-beer-into-styles

Autore: Jeff Alworth

Data di pubblicazione: 30 agosto 2021


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